approccio filosofico al progetto

Il motivo per cui inserire nuove categorie filosofiche in Architettura.

La vita è un gioco che a differenza del calcio non ha come supporto il manto erboso verde, ma il mondo fisico (oggetto) costituito di artefatti ed elementi naturali. I primi sono da intendere come la variante umana dei secondi, i quali, a loro volta, sotto il profilo categoriale, di fatto sono un costrutto umano (soggetto).

La relazione soggetto-oggetto se intesa come quel rapporto che vede l’individuo (soggetto), potersi definire tale proprio perché ritenuto distinto da ciò che non è (l’oggetto). Per oggetto mi riferisco al “mondo”, inteso come la totalità delle cose e agli stati mentali ad esse connesse in qualche modo. Molto si è detto in merito dal punto di vista ontologico, gnoseologico e psicologico. Ritengo comunque opportuno evidenziare la mia posizione in merito la quale muove dalla riflessione filosofica husserliana secondo cui gli oggetti del mondo, nel loro essere “fenomeni” ci “vengono incontro” come dati di fatto con i quali abbiamo a che fare. Per Husserl questa relazione non va separata dal modo in cui i fenomeni si presentano all’interno dei “vissuti soggettivi”, sempre legati ad una determinata situazione contingente. Secondo Husserl quando si vuole accedere alla conoscenza di tali oggetti del mondo essi non dovrebbero essere separati dalla maniera in cui ci appaiono e, soprattutto, sarebbero da inserire all’interno di un determinato orizzonte di esperienze sempre soggettive. Questo rapporto viene definito “rapporto di correlazione” e costituisce un elemento fondamentale dell’indagine sul mondo. Ritengo tutto ciò determinante per la progettazione Architettonica in quanto le antropizzazioni sono a tutti gli effetti fenomeni che incontriamo nel mondo; esse danno luogo alla tensione che si instaura con il soggetto che, a mio avviso, va considerata unica ed irripetibile. Tra i diversi tentativi di fare chiarezza sulla relazione soggetto-oggetto con i quali sono venuto a contatto negli ultimi anni, quello di Husserl è quello che maggiormente condivido nel prendere in considerazione il tema che mi accingo a sviluppare. Questo perché il rapporto di correlazione husserliano, sopra espresso in maniera molto sintetica, mette in evidenza che ogni singolo individuo nel sentirsi altro da ciò che gli si “oppone” instaura necessariamente una relazione (sia essa solo che la presa d’atto di trovarsi di fronte ad altro da sé) che dipende dal modo in cui appaiono le cose del mondo di volta in volta all’interno dei propri vissuti. Nonostante l’aspetto soggettivo dei vissuti sia determinante, ritengo vi sia la possibilità di individuare i caratteri generali delle antropizzazioni anche se esse generano “nuove” esperienze ogni qual volta si presentano all’interno del nostro “campo percettivo”. Penso che questa presa di coscienza dell’altro da sé, considerata in tal modo, generi una relazione tra soggetto e oggetto avente caratteristiche tali da poter essere intesa come uno scambio reciproco di messaggi. L’individuo nell’essere esso stesso un fenomeno del mondo diventa messaggio all’interno di esso, in quanto la sua sola presenza ha valore semantico. Al pari ritengo che qualsiasi fenomeno fisico originato dalla volontà umana, quindi un artefatto, generi, una volta percepito sensorialmente, particolari stati mentali il cui valore contenutistico è riconducibile a specifici significati. Questi sono qui intesi come messaggi con contenuto proposizionale. Quando in uno stato cosciente ci si trova di fronte ad un individuo, si ricavano necessariamente informazioni, se non altro di essere di fronte ad un proprio simile. Nel momento in cui ci si trova di fronte ad una diga da essa necessariamente ricavo informazioni, ad esempio di essere di fronte ad una diga. Queste informazioni in un certo senso possono ritenersi messaggi. In quest’ottica come messaggio può intendersi qualsiasi “contenuto intenzionale” di un atto di pensiero quando questo volge ad una entità estesa, tenendo conto della differenza tra quelle naturali e artificiali proprie degli artefatti.
Generalmente al concetto di messaggio non è associata l’esclusiva presa di coscienza di qualcosa come un oggetto. In questo contesto propongo una visione che contempli proprio questo. Artefatti ed esseri umani, a differenza della natura, quando costituiscono il contenuto proposizionale di un atto intenzionale sono portatori di uno o più messaggi. Come detto ciò non accade per la natura. Ad esempio di fronte ad un “elemento” naturale come una nuvola, un fulmine, la pioggia ecc. non si ritiene, generalmente, che ciò rappresenti l’espressione formale di alcuna volontà né umana né sovrumana, e quindi che non costituisca alcun messaggio. Semmai questi “fenomeni naturali” sono da intendersi come “indizi”, ma non come messaggi. Per contro di fronte ad un filare di cipressi dietro un muro alto un paio di metri, molto probabilmente saremmo propensi a pensare di trovarci davanti ad un cimitero, proprio perché in alcune comunità, come la nostra, si ritiene che un filare di cipressi in relazione ad un muro abbia questo significato.
In questo caso sia le nuvole che i cipressi costituiscono un atto psicologico con contenuto, ma il fatto stesso che in uno si intuisca una certa intenzione umana e nell’altro no, costituisce quello scatto sostanziale che fa delle due esperienze mentali due atti cognitivi completamente diversi, il primo privo di contenuto comunicativo in quanto trattasi solo di una constatazione, la nuvola, il secondo, il cimitero, con valore semantico comunicativo.
Ciò che si propone è di fare un iniziale “sforzo” interpretativo nel ritenere gli artefatti come messaggi, cioè come fenomeni fisici che generano eventi mentali di contenuto semantico comunicativo. Parlare di messaggi pone subito la questione fondamentale della triade mittente, messaggio, destinatario, unitamente al contesto, contatto e codice (Secondo il modello del linguista Roman Jakobson).
Si converrà che uno scambio contenutistico tra almeno due individui indiscutibilmente abbia contenuto semantico di ordine comunicativo. Al pari si può ritenere altrettanto comunicativo il contenuto proposizionale derivante dalla sola percezione della presenza di altri esseri umani anche in assenza di scambi contenutistici volontari, poiché solo dalla loro presenza si recepiscono informazioni comunque connesse ad aspetti comunicativi quali ad esempio, postura, vestiario ecc…
Generalmente la questione cambia in maniera notevole quando dalla suddetta triade mittente, messaggio, destinatario, viene meno, in modo esplicito, il mittente. Ciò fa decadere anche la presenza del messaggio: in effetti non è pensabile un messaggio senza un mittente, e quindi non può esserci nemmeno un messaggio da mettere in comune con un’ipotetico destinatario. Nel caso degli artefatti ci troviamo comunque di fronte ad un intento comunicativo che lo lega al suo artefice, anche quando non se ne conosce l’identità.
Ad esempio di fronte ad una diga non penseremmo mai di trovarci al cospetto di un “testo” di ingegneria né tanto meno davanti ad una delibera comunale avente ad oggetto l’approvazione proprio di quella barriera che abbiamo di fronte, eppure in un certo senso è ciò che accade.
Nel percepire prima sensorialmente, e poi cognitivamente, la diga mettiamo in atto una vera e propria lettura seppur diversa da quelle convenzionali.
Per meglio rendere il concetto del valore comunicativo di un certo tipo di artefatti si pensi ad una situazione nella quale un osservatore si trovi di fronte ad una persona curata nell’aspetto sul cui sfondo è percepibile un edificio anch’esso «curato»: non si potrà negare che “cura” indichi una qualità di valore semantico. Tra la persona che osserva e queste due “entità” è posto un vetro che permette all’osservatore di vedere, ma non di essere visto. La presenza dell’osservatore, quindi, apparentemente non influisce nel campo percettivo della persona osservata. Non si potrà negare che la persona “curata” comunichi ciò soltanto con la propria presenza. Questo messaggio è inconsciamente rivolto anche all’indirizzo di colui che osserva dietro il vetro nonostante costui non possa essere considerato il destinatario di tale messaggio. Ipotizziamo che l’osservatore non sia in grado di ripercorrere la storicità delle motivazioni che hanno spinto la persona curata ad assumere tale aspetto: la sostanza dell’impressione suscitata nell’osservatore non cambia. In un certo senso accade la stessa cosa quando l’osservatore si “intenziona” verso l’edificio. Anche in questo caso egli percepisce, con i dovuti distinguo, lo stesso concetto di cura, o assenza, che gli proviene dall’edificio. In questo caso, però, l’evento mentale difficilmente viene ricondotto ad un messaggio inviato all’osservatore per mezzo dell’ l’edificio.
Ciò che si sostiene è che ogni qual volta ci si trovi di fronte ad una manipolazione umana essa genera in coloro che la percepiscono sensorialmente un’esperienza mentale complessa che ha a che fare con una o più attribuzioni di significato alla stessa connessi ad aspetti comunicativi. A sostegno di ciò basti pensare a particolari artefatti corroborati da segni iconici o o addirittura da scrittura alfabetica. Nessuno negherà il valore contenutistico di un messaggio che utilizza tali segni, come “bar” o una “croce cristiana”. Anche quando alcuni di questi non sono semplicemente decodificabili si può comunque pensare che si tratti di uno testo, basti pensare un ritmo cadenzato su di una facciata di edificio di finestre 120x 150 cm sia in senso verticale che orizzontale, e subito viene in mente un edificio per residenze. Tale partizione, unitamente ad altri elementi ugualmente risulta essere a tutti gli effetti una composizione assimilabile ad messaggio compito in quanto genera un’esperienza mentale il cui contenuto potrebbe essere: “si tratta di un condominio”. Lo stesso accade di fronte ad una qualsiasi antropizzazione, la quale, anche se non decodificata per il suo valore semiotico, rimanda ad una sua interpretazione.
L’esempio tipico è rappresentato dalla frase spesso riferita da coloro che ritengono di non essere competenti in Architettura, i quali, se esortati ad esprimere un giudizio di gusto in merito ad un edificio di pregio, generalmente danno una risposta simile a questa: “Non saprei dire, non me ne capisco”, alludendo con ciò che vi possa essere qualcuno che in realtà abbia competenze specifiche in merito. L’ambiente umano non è esclusivamente per competenti, ma per tutti. Vivere all’interno di antropizzazioni, di pregio o meno, di cui si pensa di non essere in grado di “interpretarne il significato”, se paragonato all’interpretazione del linguaggio naturale, è come vivere all’interno di una collettività che parla una lingua semisconosciuta.
Lo scopo principale del lavoro dello “studio b34” sta nel far rientrare tra le opportunità del pensiero la possibilità di uno studio atto ad indagare il valore comunicativo di ogni antropizzazione, Architettura in primis, al fine di esortare coloro che le mettono in atto a vari livelli, ad inserire all’interno dell’ambiente “messaggi” comprensibili il cui contenuto, cognitivo ed emotivo, contribuisca alla costruzione armoniosa dell’ambiente stesso.
Un altro fronte del lavoro è quello di indurre i fruitori a “rivendicare” la realizzazione di interventi antropici con un alto grado di interpretabilità tanto da poterne valutare l’armonia ambientale, intesa come adeguatezza alle aspettative individuali e collettive .
L’armonia a cui si fa riferimento è quella per eccellenza: quella naturale , che, seppur “incomprensibile” sotto il profilo comunicativo, in quanto non se ne percepisce il mittente, desta in molti casi stupore e ammirazione .
L’impegno è di individuare strategie e criteri analitici e sintesi a sostegno della costruzione “comunicativamente consapevole” che al tempo stesso risulti essere armoniosa ambientalmente.